Scrivere di tango

Gli scarponi neri di Maribella Piana

PUBBLICATO IL 12 Dicembre 2022

Scrivere di tango è la nuova rubrica di Tango y Gotan, nata per celebrare il tango come forma letteraria. Verranno pubblicati racconti brevi, poesie e brani scritti da voi. Potete proporre i vostri elaborati alla Redazione scrivendo a comunicazione@faitango.it.

GLI SCARPONI NERI

Maribella Piana

Il ritmo sincopato, le note aspre e spezzate del tango invadevano la notte mescolate al fumo che usciva dalla milonga. Anche il fiato di Miguel, il buttafuori si trasformava in fumo in quella notte fredda di Buenos Aires, ma il suo corpo bruciava. Ogni volta che si affacciava nella sala scostando la tenda rattoppata la visione di un corpo bianco e liscio sfregiato dalle linee scure di una camicia da uomo lo faceva impazzire. Lui non poteva entrare nella sala. Lui era soltanto il buttafuori, quello che stava tutta la notte fuori al freddo, sentendosi scoppiare le orecchie per quelle note acute di violino che gli facevano vibrare i nervi. Spense con la suola l’ennesima cicca che sfrigolò sull’asfalto umido. I suoi scarponi. Lo inchiodavano al suo ruolo. Non si può ballare con quegli scarponi. Occorrono scarpe con le suole di camoscio, che scivolino leggere sulle tavole lucide del pavimento, che non corrano il pericolo di sfiorare le scarpette minuscole della dama, quelle che fasciano piedini nervosi, allacciate con un cinturino al biancore delle caviglie sottili, biancore che  si intravede all’apertura dello spacco della gonna di raso…

Basta. Lui non può permettersi queste fantasie. Lui ha i muscoli tesi e duri per convincere i malintenzionati ad allontanarsi ubbidienti, se li è forgiati lavorando le zolle pietrose della campagna di suo padre. Anche gli scarponi sono di suo padre. I vecchi scarponi chiodati da campagna. Li indossava solo per andare a scuola oppure quando non servivano a suo padre, che per lavorare la terra indossava le cioce fatte con i copertoni delle macchine, come nelle campagne della sua Sicilia. Per andare a scuola non poteva prendere l’autobus, costava troppo e cosi si alzava all’alba con il sole ancora addormentato stando attento a non sporcare le scarpe nell’erba bagnata di rugiada. E poi sull’autobus si sarebbe vergognato con quei vestiti rattoppati e troppo grandi per lui. In paese no. La povertà non si vede quando non si accoppia all’invidia di chi sta meglio. Nelle sere d’estate quel popolo di emigrati da vari paesi, dall’Africa, dal Belgio, dall’Italia si riuniva in una parvenza di festa, una festa malinconica però, in cui i vari linguaggi si mescolavano ed erano compresi da tutti più con gli occhi che con le orecchie, con i gesti, con le mani callose che cercavano il cerchietto delle fede nuziale, con i grandi fazzoletti sporchi che si vergognavano di asciugare lacrime. Qualcuno si era portato dietro un violino, un altro una chitarra o un bandoneon. Allora gli strumenti tentavano di creare quel linguaggio comune che le parole non erano riuscite a formare. Il linguaggio delle note era comprensibile a tutti, ai vecchi e ai bambini, agli ignoranti e ai raffinati, perché le note parlano di sentimenti e le parole a volte li nascondono. Le note, struggenti e appassionate, costringevano quegli uomini e quelle donne a guardarsi negli occhi, a cercare una mano amica, a desiderare un abbraccio che parlasse di affetto. Gli uomini cominciarono a ballare anche da soli, vergognandosi un po’, e anche le donne, ridendo, come quando da bambine giocavano insieme. Si formarono poi delle coppie in cui l’uomo, orgogliosamente, guidava la donna con piccoli gesti, come ad affermarne il possesso, e la conduceva stringendola alla schiena e incollando le gambe alle sue, buttandola all’indietro con i seni sul suo petto. La donna se ne dichiarava obbediente, orgogliosa anch’essa del proprio uomo, consapevole che quei comandi erano in realtà preghiere, offerte d’amore, e perciò, accettandoli, diventava la padrona del suo cuore.

A poco a poco si sparse la voce in città e gruppi di giovanotti e signorine, annoiati dai divertimenti sempre uguali, cominciarono ad unirsi a quei ballerini improvvisati, attenti a seguire i loro passi, ad imparare quelle movenze così sensuali, inseguendo una musica che non avevano mai sentito. Gli uomini del paese non finivano più di mangiarsi con gli occhi quelle ragazze truccate, con i capelli corti e le gambe fasciate di seta, che ridendo, li invitavano a ballare, incuranti degli sguardi disperati delle loro donne. Una strana mescolanza di persone popolò le piazze notturne, i grandi locali vuoti dove si riunivano gli operai, mentre i lamenti dei gatti in amore si accordavano a quelli dei violini. Fra le ragazze cittadine una in particolare continuava a mandare sguardi bistrati di nero agli occhi inconsapevoli di Miguel. Un amico gli diede una gomitata – Stupido, non vedi che vuole ballare con te? invitala!- E Miguel si ritrovò fra le braccia un profumo di zagara e cannella, una carezza di seta e di calore di pelle morbida di donna. I suoi scarponi neri sembravano volare sul pavimento insieme alle scarpette di vernice che lo seguivano come fossero una calamita. Ballarono una, due, tre volte fino a quando una mano maschile, con un anello al mignolo, si posò ferma sulla schiena di lei, che scoppiò a ridere, all’improvviso, gli fece una carezza sulla barba ruvida e andò via.

Miguel ne aveva avute donne nella sua vita, compagne di notti e di abbandoni, ragazze dalle braccia forti e dagli occhi buoni, ma non come quella ballerina sfrontata e provocante, non con quella pelle e quel corpo che sembrava avvolgersi attorno a quello degli uomini. Si sentiva soffocare, doveva rivederla e andò via dal paese, con i suoi scarponi pesanti, affrontò i lavori umilianti della città, le stanze occupate da uomini stanchi, l’aria pesante di fumi e di nostalgia.

Lei era lì, in quella milonga piccola e buia in una delle strade malfamate della città, e ballava con tanti uomini diversi, scoprendo le gambe mentre le allacciava alle loro e ridendo con quegli occhi bistrati.

Lei non ballava come le donne del suo paese, che ballavano per stordirsi dopo una giornata di lavoro, che abbracciavano i loro uomini consolandoli della fatica, lei ballava per denaro senza metterci il sentimento. E lui soldi non ne aveva.

Per non vederla più andò via, fuggì dalla città, e quando fu lontano, in un paese senza suoni e senza sguardi, gli rimase solo l’odore marcio del barrio e quello aspro del fumo a farlo sognare.

Maribella Piana nata a Catania, è stata insegnante di lettere classiche nei licei. Ha pubblicato una raccolta di poesie DENTRO ed. Armando Siciliano, e diversi romanzi. I RAGAZZI DELLA PIAZZA ed. Bompiani, CIELOMARE ed EMMA ( per il quale ha ricevuto il premio THEMIS) ed. Algra.  Appena pubblicato il romanzo LA MALAEREDITA’ ed. Armando Curcio che ha ottenuto il premio CITTA’ DI CATTOLICA e ottenuto un riconoscimento speciale da EQUI-LIBRI.  Alcuni suoi racconti sono stati pubblicati sul quotidiano LA SICILIA, nelle raccolte VOCI DI SICILIA e SICILIA IN 45 GIRI ed. giulio Perrone,  RACCONTI DI SICILIA ed. Historica. SICILIA DIME NOVELS ed. Algra.  CARATTERI DI DONNA ed. Univers. E’ stata finalista per due volte al concorso ENERGHEIA  di Matera. Una sua poesia APASIONADO ha ricevuto un premio dall’associazione Gente que si di Udine, durante il Premio Letterario organizzato da Faitango. Si occupa di teatro da diversi anni ed attualmente recita nella compagnia di Gabriele Lavia. Ha partecipato a film ( Agente matrimoniale di C. Bisceglia, Au Sud di L. Baier, Il caso Dragonterre di G. Cugno ) e a diverse fiction televisive ( Il capo dei capi, Montalbano, Makari).
ARTICOLI CORRELATI #

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

*